Un giardino da curare, amare, contemplare. Un luogo in cui vivere, separati dal mondo, ma al contempo il luogo migliore per viverlo, quello stesso mondo, dall’interno di ogni sua fibra.
Poi, all’improvviso, una stonatura, una lieve zoppia, rompe l’equilibrio.
Sono i primi segni di una malattia che lenta e inesorabile succhia l’energia vitale dell’autrice/protagonista di questo diario, sconvolgendo tutto: il rapporto con il giardino, il senso delle cose e del tempo, la vita stessa. Soprattutto, la vita, ora che la morte non è più un inevitabile accidente, ma una compagna tanto costante quanto ingombrante.
Comincia così "Al giardino ancora non l’ho detto" (Ponte alle Grazie), diario in cui l’autrice, Pia Pera, si trova a fare i conti con il passato e quel che resta del futuro, con le aspettative e l’egoismo che inevitabilmente arriva, quando si comincia a essere esclusi da tutto, anche dal proprio giardino.
Chi scrive ha scelto una vita da eremita (e sui significati e le motivazioni dell’eremitaggio riflette molto) proprio per cercare di ritagliarsi la propria fetta di immortalità – non in un’ottica metafisica, ma in quanto ricerca di una connessione con l’eterno attraverso l’accettazione di essere creati e cancellati dalla natura.
Eppure non è mai sola.
Oltre a Macchia, una cagnolina fox terrier che la segue ovunque, c’è il valido aiutante cingalese, Giulio, a tenerle compagnia, e un gran numero di amici che vanno e vengono dalla sua casa.
Ci sono poi la meditazione, i moltissimi libri, le letture che scandiscono il ritmo dell’intero diario, e soprattutto c’è lui, il giardino.
È quest’ultimo il vero compagno dell’autrice.
È il giardino che riflette, come in uno specchio, ogni suo stato d’animo, che somatizza ogni segno di malattia.
Su
ilLibraio.it un capitolo
(per gentile concessione dell’editore)
Un giorno di giugno di qualche anno fa un uomo che diceva di amarmi osservò, con tono di rimprovero, che zoppicavo.
Non me n’ero accorta. Era una zoppia quasi impercettibile, poco più di una disarmonia nel passo, un ritmo sbagliato.
A lungo non se ne comprese il motivo. La sensazione era che mi si stesse seccando la gamba destra, come talvolta capita che su un albero secchi un ramo.
Stavo io stessa appassendo.
Morire non era più una speculazione intellettuale, stava realmente accadendo.
Molto lentamente e prima del previsto. Lasciandomi forse il tempo di scrivere in presa diretta del giardiniere di fronte alla morte.
Anche se, in un certo senso, non ero più un giardiniere. Non in prima persona, o molto poco. Vangare, zappare, tagliare l’erba, proprio non se ne parlava più.
Anche raccogliere era diventato complicato: mi mancava l’equilibrio, prima di staccare frutti e ortaggi dovevo poggiare il mio instabile corpo a un qualche sostegno, spesso un bastone tra le gambe.
Posavo il cesto per terra, perché di mani libere ne restava una sola.
Col tempo mi sono abituata a considerare il corpo come una sorta di grosso pupazzo che potevo spostare ma non fermare – a meno di trovare dove metterlo, capire come puntellarlo. Bastava un appoggio anche minimo.
Un ginocchio contro il bordo di una sedia, la testa contro il muro, anche soltanto un dito contro il tronco di un albero.
Compresi che non avrei realizzato il mio desiderio di morire sulle mie gambe.
Qualcosa che ero avvezza a considerare mio sacrosanto diritto.
Qualcosa di cui, per anni, ero stata fiera in anticipo. Troppo anticipo.Mi sono abituata.
Non solo: da quando ho perso la me stessa di un tempo – quella che attraversava fulminea la città, che camminava instancabile in montagna, che guardava con commiserazione chi si serviva di taxi e mezzi pubblici invece di andare a piedi – non ho più avuto malumori. Non so perché. Forse mi sono resa conto che il tempo è poco, perché mai sprecarlo? O c’è qualcosa di più, in questa paradossale serenità?
Cos’è cambiato nel mio rapporto col giardino?
È cresciuta l’empatia. La consapevolezza che, non diversamente da una pianta, io pure subisco i danni delle intemperie, posso seccare, appassire, perdere pezzi, e soprattutto: non muovermi come vorrei.
Lungi dal vedermi come colei da cui dipende il benessere del giardino, mi so esposta alle contingenze, vulnerabile. Se il giardino era stato il luogo dove contemplare metamorfosi e impermanenza, adesso l’accelerazione della corrente mi costringe a rendermi conto di esservi io stessa immersa. Non sono più un osservatore esterno, qualcuno che dispone e amministra. Mi trovo io stessa in balia.
Questo ispira un sentimento di fratellanza col giardino, acuisce la sensazione di farne parte. Altrettanto indifesa, altrettanto mortale. Meno sola, in un certo senso.
Altrettanto sola?
Se all’inizio mi prendevo cura del giardino, compiendo in piena autosufficienza tutti i lavori, adesso debbo prendermi cura di me stessa.
Il tempo prima impiegato potando, scavando buche, bruciando frasche, zappando, falciando l’erba, adesso mi viene rubato dalle cure necessarie a mantenere me stessa in vita. Quasi fossi diventata io il giardino. A lavorare chiamo i giardinieri. Mi aggiro col bastone e indico il da farsi, con la sensazione di essere diventata simile alla vecchia principessa Greta Sturdza, come si vede in una delle foto del libro sulla sua tenuta normanna del Vasterival.
Non sono più la stessa persona. Alla diversa andatura, alla lentezza nel camminare, la circospezione con cui procedo di passo in passo, la cautela con cui considero se valga davvero la pena di muoversi o no, corrisponde una percezione nuova del mondo. Credo che adesso non proverei più lo stesso stupore misto a diffidenza di fronte alle opere di un’artista scandinava che, anni fa, venne a trovarmi nel mio podere.
Mentre passeggiavamo, non faceva che chinarsi per raccattare frutti rinsecchiti, foglie appassite, baccelli anneriti dalle intemperie. Bah! avevo pensato tra me, al giorno d’oggi qualsiasi gesto passa per arte.
L’avevo lasciata fare, per nulla convinta in cuor mio della qualità o anche solo del senso del suo lavoro.
E del tutto indifferente alle sue «ruberie»; dopotutto, quello che raccattava era spazzatura: frutti marci, fiori sfatti, qualsiasi cosa non avesse più corso, uso di mondo.
C’è voluto tempo per cominciare a capire.
Non immaginavo tuttavia che, ben presto, mi sarei percepita anch’io come quelle povere cose raccattate, al punto d’incontro tra due energie: conservazione e distruzione.
Organismi in decadenza, in bilico tra essere e non essere. Chissà che un momento prima di venir meno non si manifestino, con intensità forse acuita, se non vera e propria bellezza, un pathos, un’espressività insospettati.
Quasi che, rendendo l’anima a Dio, le cose sprigionassero, per un attimo e quell’attimo soltanto, una qualità che passa inosservata quando il corpo, godendo perfetta salute, è troppo turgido, troppo opaco, troppo spesso. Troppo materiale.
Adesso che mi sento come uno di quegli scarti, provo una serenità diversa, una serenità per la prima volta vera e profonda.
Sprigiona adesso che il corpo ha perso un poco del suo spessore.
La leggerezza interiore nasce forse dal sentirmi libera dalla zavorra terribile del futuro, indifferente al cruccio del passato. Immersa nell’attimo presente, come prima mai era accaduto, faccio finalmente parte del giardino, di quel mondo fluttuante di trasformazioni continue.
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